mercoledì 8 settembre 2010

Sakineh e la lezione di Beccaria

Pubblicato da: www.inviatospeciale.com

“Dei delitti e delle pene” tra morte, reclusione e diritto

La storia di Sakineh, che in questi giorni è fonte di grande interessamento per tutta l’informazione mondiale, non può che essere uno spunto per riflettere ed interrogarsi sul modo in cui uno Stato mantenga l’ordine all’interno dei propri confini tra i propri cittadini.

Circa 250 anni fa, nel 1763 per essere esatti, un giurista italiano di nome Cesare Beccaria poneva attraverso la sua opera “Dei delitti e delle pene” alcuni interrogativi che a tutt’oggi non hanno ancora ottenuto risposte. Una delle domande-cardine della sua opera è la seguente: “Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili?”.

La riflessione che ruota intorno a quest’interrogativo è che se all’uomo, dal creatore e quindi dalle autorità religiose che fanno le veci del divino in terra, non viene concessa neanche la possibilità di uccidersi, perché mai questo diritto dovrebbe essere concesso ad altri, i quali per mantenere l’ordine nella società, potrebbero esercitarlo senza alcuna remora?

Secondo il Marchese di Beccaria, oltre che ingiusta, la pena capitale non servirebbe neanche a costituire un vero e proprio deterrente da parte dell’autorità statale, dal momento che le persone tendono a dimenticare e rimuovere gli avvenimenti cruenti e traumatici. E’ nella certezza della pena, aggiungeva, il terreno in cui bisogna riporre le basi della legalità, non nella vendetta di Stato.

Sono passati più di due secoli dai giorni in cui il Beccaria s’interrogava su tutto ciò. Eppure, salvo qualche sporadico caso di reinserimento sociale, nessun Paese occidentale e non è stato in grado di trattare i propri detenuti come cittadini da riabilitare, piuttosto che da abbietti da relegare ai margini della società per il resto della loro esistenza.

“La vera giustizia consiste nell’impedire i delitti non nell’infliggere la morte”, recitava uno dei passi dell’opera. L’educazione del cittadino, in questo caso, è la chiave di ogni ordine e, se questo non dovesse bastare la pena dovrà essere un risarcimento che il reo deve alla società, non una punizione esemplare che intimidisce il resto della cittadinanza a non commettere più reati.

Può sembrare paradossale, ma in alcuni passi il celebre giurista sembra parlare all’Italia di oggi. Ad esempio quando si chiede “quale più dolente contrasto tra l’indolenza di un giudice e le angosce di un reo?”. Sta parlando dell’immediatezza della pena, passaggio fondamentale affinché chi è innocente non sopporti l’ansia dell’attesa, e chi è colpevole inizi da subito a pagare dazio.

E pensare che l’Italia è collocata al 156° posto su 181 Paesi al mondo nella classifica che si occupa di misurare l’efficienza della giustizia. La situazione nelle carceri è sempre più critica, aumentano i suicidi e le morti da “accertare”. I detenuti, alla fine del 2009 erano quasi 70mila per un sistema carcerario che può ospitare circa 45mila reclusi. E l’unica soluzione paventata dal ministro della giustizia Alfano sarebbe quella di estradare i quasi 20mila stranieri che ospitano le nostre celle, visto alla fine di agosto ha richiesto l’intervento dell’Unione europea per affrontare questo problema.

“Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”. Cesare Beccaria lo scriveva nel ‘700, ma se potesse lo urlerebbe ancora al mondo intero.

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