Tiziano è un cittadino dello Sri Lanka, ha 50 anni e decise di lasciare il suo paese nel 1982. Adesso vive a Napoli con la moglie e i suoi due figli maschi, ha un lavoro regolare, una cerchia di amici quasi tutti napoletani ed una vita che molti suoi connazionali sognano ad occhi aperti.
La storia del suo arrivo in Europa non può che suscitare esclamazioni del tipo: “Sembra un film”. Arrivato dal nord dello Sri Lanka, la zona induista del Tamil, nel 1982 atterrò nella Praga filo-sovietica dove le autorità non ponevano troppi problemi sul visto e sulla sua durata. Dalla ex capitale della Cecoslovacchia giunse a Berlino est, con l’intento di raggiungere la zona ovest della città, in mano agli occidentali.
Essendo Berlino un enclave nella Germania comunista dovette, grazie all’aiuto di un parente, approdare con documenti fasulli nella parte occidentale della Germania passando per la zona est. Da lì, sempre grazie al ‘circuito’ suggeritogli, si spostò a Parigi.
Nella capitale francese, grazie all’intesa diplomatica esistente all’epoca tra i Paesi “non allineati”, ottenne un biglietto del treno per la Jugoslavia che non necessitava di particolari visti o controlli. Arrivare nei Balcani però, voleva dire passare per Roma, ed era quella la sua vera meta.
Dalla città eterna a Napoli, poi, ci impiegò ben poco tempo, sempre grazie ai suggerimenti di chi, prima di lui, nel nostro Paese già ci viveva da un po’. Con sé, in questo lungo e tortuoso viaggio, portava solo un borsone. “Non sapevo nemmeno a quale clima sarei andato incontro prima di partire”, racconta ricordando che su uno dei tanti viaggi in treno per l’Europa arrivò addirittura a difendersi dal freddo con un asciugamano che avvolse al capo.
Una volta nel capoluogo campano la sua strada non sarebbe stata che in salita. Mentre racconta, Tiziano sorride ed è felice di far conoscere la sua storia. D’altra parte, come sottolinea divertita anche la moglie, spesso la racconta anche ai figli, nati e cresciuti in Italia. Vuole probabilmente far capire loro che nulla è dovuto. Anzi, ogni conquista è stata fin troppo sudata.
Nel lontano 1982 riuscì finalmente a stabilirsi in una città. Lavorava presso un conte, spiega ricordando con estrema tranquillità. Fino al 1987 sarebbe rimasto senza documenti, “clandestino”, a casa del suo datore di lavoro. Svolgeva mansioni da domestico e, almeno da quanto si interpreta dal suo viso, sembra abbia buoni ricordi di quel periodo.
Intanto, già durante primi giorni partenopei, incontrò l’attuale moglie, anche lei dello Sri Lanka, ma della zona sud, il Negombo, dichiaratamente cattolica. Dopo diverse vicissitudini e beghe giudiziarie, con i vari fermi dei carabinieri che puntualmente gli sanzionavano il famigerato “foglio di via”, nel 1990 riuscì a trovare lavoro come contabile di un negozio d’abbigliamento. Tutt’oggi si occupa della gestione commerciale dello stesso negozio, ormai ampliatosi in cinque punti vendita.
La storia di Tiziano appare come una chimera per le migliaia di srilankesi che si vedono camminare per le strade italiane a vendere ombrelli, accendini e oggettini vari. Ragazzi il più delle volte in possesso di un titolo di studio, che decisero di abbandonare il loro Paese alla volta dell’occidente, nella vana speranza di trovare una sistemazione valida ed una stabilità che permettesse loro almeno di mantenere la famiglia.
Non c’è età per partire. Dai 18 in su, qualora non si riesca a trovare lavoro, si decide sempre di contattare un eventuale lontano parente, che anni prima ha fatto quest’importante scelta. La paura è tanta, soprattutto quando, come spiega un altro giovane cingalese, 23enne, da meno di sei mesi a Roma, “so bene che non eserciterò mai quello che ho studiato – è infatti laureato in economia e commercio – qui ho trovato un lavoro come lavapiatti, chiaramente in ‘nero’. Dovrò sudare, lo so, sapevo che non avrei trovato l’oro”.
Dalle nostre parti si sarebbe detto “trovare l’America”, ma il significato sarebbe stato più o meno lo stesso. Non esiste idillio, tanto meno paradiso terrestre che aspetti dei giovani immigrati, soprattutto quando, come nel caso dell’Italia, la situazione è inasprita non solo dall’enorme tasso di disoccupazione, ma anche da un sentimento di diffidenza nei confronti dell’immigrato.
Ci si trova spesso ad ascoltare definizioni del tipo “immigrato clandestino” e a pronunciarle non sono di certo le frange più razziste del Paese. La parola ‘clandestino’, utilizzata all’ordine del giorno da telegiornali, quotidiani e opinionisti, di diversa levatura culturale, altro non significa se non “fatto di nascosto, segretamente, per lo più perché vietato dalla legge o da un’autorità”.
Gli immigrati che definiamo gratuitamente ‘clandestini’ altro non sono che irregolari. In Francia vengono definiti semplicemente “sans papier”, senza carta, ovvero sprovvisti di documenti. In Inghilterra invece, si limitano a chiamarli “irregoular”.
La percezione che il lettore o il telespettatore ha della parola clandestino, è quella di qualcuno che si nasconde, che non ha relazioni sociali e che teme quotidianamente di essere scovato. Non è così. Chi non possiede documenti ha amici, esce la sera per bere una birra in compagnia, lavora e viene pagato poco e possiede anche una scheda telefonica per il cellulare.
Ma come può un immigrato, definito ‘clandestino’, acquistare un numero telefonico, che ha bisogno di essere intestato? Per rispondere a questa domanda, basta recarsi presso un punto vendita di un qualsivoglia gestore telefonico e richiedere il resoconto di quante schede telefoniche si posseggono a proprio nome. Il risultato sarà di due o più schede che i venditori lasciano, a chi non può intestare un contratto telefonico, a nome dei clienti già esistenti.
L’aggettivo ‘clandestino’ rischia dunque di diventare un appellativo di comodo, anche nella vita concreta. Risulta infatti molto comodo per un datore di lavoro offrire una paga da fame a chi non ha nessun diritto di opporsi. La manodopera italiana di matrice ‘clandestina’ è infatti sempre più in espansione. Troppi sono i casi di sfruttamento nei cantieri, nei campi e nelle fabbriche, che vedono gli immigrati irregolari subire le più assurde vessazioni lavorative.
“I tempi sono cambiati”, lo ha ripetuto spesso anche Tiziano, consapevole che negli anni ’80 la situazione che gli si presentò era ben diversa da quella di oggi. Ma tra 30 anni, chissà se un giovane immigrato di oggi potrà raccontare la sua storia con lo stesso lieto fine.
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