venerdì 19 febbraio 2010

Stagisti sfruttati: è la norma

Da lungo tempo risuona nelle nostre orecchie la frase “è un periodo di crisi”. Tale affermazione, di certo non mendace, porta però a consolidare degli atteggiamenti scorretti che le aziende del nostro Belpaese hanno da sempre: stiamo parlando del lavoro precario travestito da stage.

Mentre la parola ‘crisi’ dovrebbe servire al governo per produrre e incentivare nuovi impulsi lavorativi e ammortizzatori sociali, le aziende, soprattutto le medio-grandi, approfittano del termine per giustificare degli assurdi rapporti lavorativi a discapito del lavoratore. Non è infatti insolito ascoltare, in sede di colloquio, frasi del tipo: “La crisi la sentiamo anche noi, per questo pretendiamo un periodo di prova”. Oppure, sempre mantenendosi sul genere: “Per non rischiare, in un periodo di crisi come questo, offriamo uno stage e poi una possibile assunzione”.

Basta una rapida occhiata tra le file degli assunti di queste aziende per accorgersi che solo pochissimi, se non nessuno, degli ambiziosi stagisti, ha mai visto nulla di simile ad un contratto lavorativo. Il comportamento di queste società, oltre ad essere spudoratamente scorretto, è anche stato tollerato dalla classe dirigente italiana.

Continui turn-over si avvicendano negli uffici, senza che nessuna autorità vigili sul corretto svolgimento delle assunzioni. Tra l’altro, ed è la cosa più aberrante che il mondo del lavoro italiano potesse mai sfornare, il profilo del lavoratore che ambisce ai tirocini non è quello del giovane diplomato o laureato senza competenze, bensì quello del laureato specializzato che sul proprio curriculum possiede già uno o più stage.

Un’esperienza come quella che racconteremo rischia di essere paradigmatica per migliaia di giovani che quotidianamente si attivano nella forsennata ricerca di un lavoro.

Valeria ha 28 anni, è laureata in scienze della comunicazione e si è iscritta all’albo dei giornalisti come pubblicista dopo due anni di collaborazione (un anno gratis e l’altro retribuito) presso una tivù minore. Da sei mesi svolge un altro stage, sempre non retribuito, presso l’ufficio stampa di un partito politico dell’attuale opposizione.

Nella sua ricerca di lavoro, nell’ultimo mese, si è imbattuta grazie a dei consigli ricevuti da un amica che lavora a Milano, in un’importante società che opera da oltre vent’anni nell’ambito della comunicazione e si occupa di musica, televisione, teatro, eventi, personaggi e aziende. Questa importante società risiede anch’essa nel capoluogo lombardo: pertanto, per sostenere il tanto agognato colloquio, Valeria ha dovuto comprare a sue spese il biglietto di andata e ritorno da Roma (costo: circa 100 euro).

Arrivata in sede di colloquio, dopo che per telefono aveva già deprecato la possibilità di accettare un’eventuale stage, si è trovata davanti al braccio destro della proprietaria dell’azienda, che puntualmente le ha proposto l’ennesimo stage dicendo, quasi come se fosse una cortesia, “sarebbe anche minimamente retribuito”.

Nulla di quello che diceva ovviamente era vero. Nemmeno la minima retribuzione sarebbe stata garantita alla giovane giornalista che, per forza di cose, ha dovuto rifiutare. Quando infatti, tramite mail, ha provato a capire quale fossero i termini remunerativi, ha ottenuto come risposta: “Senza alcun tipo di rimborso per un periodo di 6/7 mesi, almeno”.

E pensare che la legge (DM 142/98) che regola gli stage esordisce dicendo: “Al Fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro nell’ambito dei processi formativi e di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta dei mondo del lavoro”.

Nella regolamentazione dei tirocini sono nascoste anche tante altre ‘sottili’ disposizioni che permettono alle aziende del centro-nord di essere rimborsate, grazie al Fondo istituito nel 1993 dal Ministero del Lavoro, quando gli stagisti sono provenienti dall’area del Mezzogiorno e ricevono vitto e alloggio. Non è quindi un caso che la maggioranza dei ‘lavoratori a costo zero’ siano giovani laureati del sud: in un Paese dove il falso in bilancio non è un reato, dichiarare un pagamento di vitto e alloggio, che in realtà non viene fornito, può diventare estremamente semplice per molte aziende.

ÈE’ previsto dalla legge che non vi siano, per un periodo che va dai 4 ai 12 mesi a seconda dei casi, rimborsi né stipendi per gli stagisti. Il sistema sembra quindi essere fallato alla radice. Finché i nostri governi lo permetteranno, le imprese continueranno a sfruttare le generazioni presenti e future. Ma come si può immaginare un “cambiamento” se anche gli “sfruttati” non inizieranno a rifiutare certe indecenti condizioni lavorative?

Diego Ruggiano

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