lunedì 20 luglio 2009

Piccolo tributo ad una piccola persona: Carlo Giuliani

Sapevo poco o niente di quel ragazzo sparato da un carabiniere a Genova. Avevo sempre identificato il bene nella divisa ed il male in chi si oppone ad essa. Avevo sempre sbagliato.
Adesso, dopo 8 anni, so tanto, forse troppo, di quel ragazzo. Si chiamava Carlo, ed è morto senza nemmeno sapere per cosa moriva. È diventato una bandiera di libertà ma lui, giovane, troppo giovane, di politica, conflitti sociali e idealismi, ne sapeva davvero poco.
Carlo era un ragazzo. Nulla di più. Avrebbe avuto poco da dire se interpellato pochi minuti prima di morire. Forse adesso, avrebbe avuto altrettanto poco da dire. O forse sarebbe diventato un uomo in gamba, un uomo con i contro attributi, capace di farsi spazio in questa società che con tanto ardore criticava. Chissà.
L’unica cosa che si sa, e che si deve accettare, è che Carlo è morto. Nulla valeva la sua vita, eppure, quel giovane ingenuo ed avventato, la sua vita l’ha svenduta, anzi, l’ha regalata a chi con un dito su un grilletto ci ha messo un nanosecondo a rubargliela.
Rivedo le foto di Carlo steso esangue sull’asfalto. Accanto alle foto, centinaia di frasi scritte alla ricerca di giustizia. Giustizia? Quale giustizia è mai riuscita a restituire una vita? Nemmeno la vendetta sarebbe in grado di colmare tale vuoto. Niente e nessuno ci riuscirà.
Gioco con l’immaginazione.
Immagino un Carlo morente capace di leggere ed ascoltare quello che poi si sarebbe detto di lui; lo immagino urlare: “zitti, state tutti zitti. Mi hanno sparato, hanno sbagliato. Ed io, che sto consumando gli ultimi attimi della mia vita, la mia breve vita, capisco solo adesso mentre con il capo bucato da un proiettile sto affogando nel mio stesso sangue che forse, si ragazzi, forse, ci ho capito davvero poco della vita”.
A me, piace disegnarlo così. Non audace, non coraggioso, non colto, non temerario, non capace, non astuto, non arguto ma cosciente ed intelligente al punto da rimetter e in discussione il motivo per cui è morto: il niente.

A Carlo,

Diego Ruggiano

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